A che serve la pubblicità?
A molte cose: farci conoscere, allargare il nostro mercato, dimostrare che cosa siamo capaci di fare, eccetera. Tutto ok, se le cose si fermano qui.
Ma c’è anche un’insidia nascosta nella pubblicità.
Un’insidia che può diventare una tremenda e pericolosa trappola, se non la si conosce e non si impara a gestirla.
Mi riferisco al fatto che molta pubblicità tende a livellare, a rendere uniforme, ad appiattire. Nell’intento di farsi capire, di essere immediati e intuitivi per il destinatario, di toccare anche le corde più intime e nascoste di ogni possibile target, si usa il linguaggio che tutti capiscono, che, necessariamente, è un linguaggio uniforme: lo devono leggere e comprendere tutti, colti e meno colti, poveri e ricchi, quelli dentro la nostra sfera e quelli fuori dalla nostra sfera.
E la trappola? Eccola...
Diventare non quello che siamo, ma quello che gli altri vogliono che noi siamo.
“Recitare a voler essere come gli altri ci vogliono, come gli altri pretendono che siamo, è assai pericoloso, perché ci porta sempre più lontani da ciò che in realtà siamo”.
Sono parole di un grande maestro di umanità, che di professione ha fatto (in quanto è morto a 85 anni nel 2012) lo studioso della Bibbia (che conosceva a memoria in 5 lingue!): Carlo Maria Martini, divenuto cardinale della più grande diocesi d’Europa, Milano.
Che c’entra un cardinale con la pubblicità?
Io sono di questo avviso: spesso, anzi spessissimo, le idee migliori vengono non da chi è dentro una situazione, ma da chi ne è fuori.
È la vecchia ma intramontabile storiella del re nudo: solo un bambino, che non era dentro ai giochi di palazzo, si accorse che il re era non bello, come tutti si prosternavano a dichiarare, ma semplicemente nudo!
Guardare con occhi nuovi, diversi.
Guardarsi non come gli altri ci vogliono, ma come noi abbiamo capito che siamo: potrebbe essere questa la strada maestra anche per le aziende che vogliono davvero crescere?
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